L’Occidente teme l’incubo nucleare: una bomba tattica ai confini europei

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Il conto alla rovescia verso l’ora più buia è cominciato. Ci sono tre mesi, quattro al massimo, per impedire che l’invasione dell’Ucraina inneschi un’escalation dove l’uso di ordigni nucleari non è più escluso. Vladimir Putin ha preso la decisione più rischiosa per il suo sistema di potere ma anche per la sicurezza mondiale. Non può tornare indietro: adesso è ancora più obbligato a insistere nella prova di forza, sia sul campo di battaglia che nel confronto con l’Occidente. L’effetto dei 300 mila riservisti mobilitati ieri sulle sorti del conflitto si vedrà entro gennaio. Ma è un’incognita, sui cui pochi scommettono, e questo obbliga il Cremlino a ostentare l’unica certezza: la capacità distruttiva del suo arsenale atomico.

Nonostante la fine della Guerra Fredda, la Russia non ha mai smesso di considerare queste armi come un pilastro della sua strategia. La dottrina di impiego è stata costantemente aggiornata, l’ultima volta nel giugno 2020, così come gli strumenti per concretizzarla. Mentre Washington ha trascurato i suoi reparti nucleari – fino a tre anni fa le basi dei missili intercontinentali avevano ancora computer con i floppy disk – Mosca ha investito somme enormi per modernizzarli. Con una differenza concettuale. Gli Stati Uniti e la Nato sono rimasti ancorati alle teorie concepite ai tempi del Muro di Berlino e alla prospettiva di uno scontro tra i due grandi blocchi.

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Nei dibattiti del Cremlino invece è stata presa in considerazione l’eventualità di usare l’atomica nei conflitti “minori” aperti dallo sgretolamento dell’Urss. Al centro delle riflessioni ci sono gli ordigni “tattici” che hanno una testata compresa tra 0,2 e duecento chilotoni: per avere un termine di confronto, l’esplosione di Hiroshima è stata di venti chilotoni. L’impostazione viene presentata come difensiva: sono lo strumento estremo per imporre la supremazia russa. Lo dice il documento firmato da Putin: la “Bomba” si può usare se viene minacciata l’integrità dello Stato, se c’è la necessità di impedire un’escalation e se si è davanti a una sconfitta “inaccettabile”. Condizioni che somigliano allo scenario che si sta concretizzando in Ucraina, dove le regioni annesse alla Russia con il referendum sono esposte all’avanzata nemica e lo schieramento di Mosca rischia il collasso.

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Come e dove verrebbe usata l’arma “tattica” è un segreto. Il targeting, ossia la disciplina che determina la scelta dei bersagli, è una sintesi di valutazioni politiche e militari complesse, in cui il calcolo dei danni inflitti si accompagna a quello delle potenziali ritorsioni. Da mesi i vertici della Nato si interrogano, cercando di individuare gli eventuali obiettivi su cui verrebbero puntati i missili del Cremlino. Sono circolate due ipotesi.

La minima: l’Isola dei Serpenti, lo scoglio occupato dai russi e poi riconquistato. Sin dall’inizio dell’invasione è diventata l’icona della resistenza, cancellarla con un fungo atomico trasmetterebbe un messaggio feroce all’intera nazione. Inoltre, nelle ciniche stime dei generali viene evidenziato che non ci sarebbero vittime civili e il fall out – la pioggia di ceneri contaminate – si disperderebbe in mare. Basterebbe a piegare la determinazione degli ucraini? Per questo la lista della possibile rappresaglia si spinge a fino a includere il massimo dell’orrore: la distruzione di un centro abitato nella regione di Leopoli, al confine con l’Europa. Anche con la testata più piccola ci sarebbero migliaia tra morti e feriti, con una nuvola radioattiva che raggiungerebbe pure la Polonia e forse i Paesi baltici. Una sfida non solo al popolo ucraino ma all’intero Occidente.

Come reagirebbe l’Alleanza Atlantica? Kiev non ne fa parte e non ci sono piani per uno scenario così mostruoso. Fino al 1991 le testate “tattiche” erano previste dai comandi Nato come mezzo per contrastare l’assalto delle divisioni corazzate sovietiche, poi con il disarmo collettivo la questione è stata archiviata. Non tutti gli ordigni di questo tipo però sono stati smantellati. Gli Stati Uniti hanno mantenuto in servizio circa cinquecento bombe B-61, in parte destinate a venire sganciate dagli aerei alleati.

Ed ecco che i venti di guerra possono spingersi fino all’Italia, perché le basi atlantiche più vicine all’area del conflitto sono nel nostro territorio. Nell’aeroporto di Aviano, in provincia di Pordenone, c’è una ventina di B-61 per i jet dell’aviazione americana. Altrettante – il numero esatto è top secret – si trovano a Ghedi, non lontano da Brescia: sono in un bunker statunitense ma verrebbero impiegate dai caccia Tornado della nostra Aeronautica. Nessuno vuole credere che questi spettri possano mutarsi in realtà: anche solo pensare alle armi nucleari – come ha detto Papa Francesco – “è una pazzia”. Per questo è indispensabile trovare subito un modo per fermare la corsa verso il baratro.

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